Obiettivo di queste riflessioni è avviare una serie di ragionamenti sul possibile sviluppo dell’università, metterli in ordine in base alle trasformazioni dell’organismo architettonico e inquadrarli secondo l’entità delle opere necessarie per gli adeguamenti dell’edificio. Questi, come vedremo, non potranno procedere parallelamente alle programmazioni accademiche, perché dovranno essere sottoposti a una serie di lunghe pratiche, la cui conclusione è sempre di difficile determinazione. Lo sforzo sarà quindi rivolto a individuare tutti i possibili canali innovativi, soprattutto didattici, e collegarli ai necessari lavori edilizi, al fine di anticiparli e averli già risolti al momento che saranno in corso i nuovi programmi. L’obiettivo, ambizioso, obbliga a far convergere su un disegno unitario tutte le competenze che partecipano al governo dell’università le quali, spesso, lavorando invece su campi settoriali, trascurano le difficoltà della fase esecutiva.

La visione che emerge è quella di un architetto che, avendo ricoperto il ruolo di rettore, ha assorbito quanto la macchina di governo di un ateneo può riversare su chi è abituato a misurare tutto attraverso il progetto. La prospettiva che ne deriva evidenzia quindi un traguardo professionale che antepone a tutto la fattibilità edilizia: dove e come ciò che si ipotizza possa trovare una sua adeguata collocazione.

L’invito è pertanto quello di approfondire i temi enunciati, ma anche di proporne altri che, partendo da posizioni diverse sia per formazione scientifica che per responsabilità gestionale, indichino le priorità da coordinare con l’adeguamento dell’impianto architettonico.

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5 commenti

  1. Caro Mario il testo è molto accurato e logicamente inappuntabile, in particolare se riferito alla realtà italiana e mediterranea. Alcuni dei temi citati sono in grande evoluzione. In molte aree del mondo, dove gli atenei servono anche località remote, l’insegnamento fully online (con consegne ed esami via internet, altamente controllati per garantirne la qualità) si è enormemente sviluppato. Asia, Australia e Nord America hanno inaugurato da vari anni (grazie alla banda larga) corsi interi – bachelors e master – offerti in tutti i trimestri dell’anno. Questo ha avuto e sta avendo grandi conseguenze: in primis ha riportato l’idea – tutta da provare – che si può trarre profitto dall’insegnamento per sostenere i costi della ricerca; in secondo luogo ha modificato i modi di insegnamento tradizionali “face to face” (le ricadute sono reciproche) con conseguenze sullo sviluppo della professionalità, della managerialità e della flessibilità richiesta al docente universitario. La tensione competitiva tra insegnamento online e tradizionale è evidente anche all’interno dello stesso ateneo, perché conflittuale rispetto alle scelte da compiere rispetto all’innovazione e alla conservazione del patrimonio edilizio dedicato all’insegnamento e alla ricerca. Forse su questo tema – che certamente arriverà anche in Europa e in Italia insieme alla progressiva riduzione di fondi pubblici – vale la pena di avviare una seconda riflessione. Il tema per me è evidente: l’insegnamento virtuale rende apparentemente superfluo il campus se non per scopi amministrativi e promette di ottimizzare la risorsa più costosa, quella del lavoro intellettuale che richiede ancora oggi molto tempo. Un tempo che si contrae sempre di più – dalla durata dei corsi alle ore di contatto, alla preparazione etc. – per ragioni di bilancio e per l’ingigantirsi della macchina amministrativa del controllo della qualità dei corsi e dell’ingresso degli studenti da ogni parte del mondo. Quale ruolo riveste allora lo spazio universitario nell’esperienza diretta e, con esso, la socialità, un tempo intrinseca all’università, negli sviluppi del prossimo futuro? Il bilanciamento con la funzione urbana dell’ateneo, l’accoglienza di visiting accademics e studenti stranieri certo può offrire spunti. Probabilmente la sinergia città/università/persone che determina la qualità dell’esperienza educativa in situ potrà fare la differenza in questo mondo sempre più competitivo. Forse…

  2. FORMAZIONE UNIVERSITARIA E MODELLO INSEDIATIVO
    Carissimo Mario,
    In merito alla tematica in interesse, intendo in questa sede esprimere alcune personali riflessioni inerenti l’individuazione di tutti i “possibili canali innovativi, soprattutto didattici” senza in alcun modo entrare nel campo dei modelli architettonici
    Il mio pensiero prende avvio innanzitutto dall’individuazione di un problema cardine presente tra l’altro in moltissime Università soprattutto pubbliche, in cui manca l’attività di programmazione. Di fatto l’offerta formativa propone curricula e attività non più coerenti con le esigenze che la società richiede.
    Affinare quella capacità di saper instaurare e mantenere nel tempo un sano e costruttivo confronto con una società che cambia costantemente può essere un modo per riuscire a individuare quali saranno le esigenze emergenti e che cosa servirà alla società fra tre e cinque anni.
    Ed è proprio sulla base di queste richieste che gli Atenei dovranno programmare i loro percorsi formativi in linea e in sintonia con la loro vocazione didattica e formativa.
    In questo modo si possono risolvere molti problemi a partire da quelli occupazionali ed a seguire da quelli legati allo sviluppo economico fino ad arrivare a quelli legati alla sicurezza. In una società dove c’è benessere, c’è anche poca criminalità.
    La mission delle Università e di tutte le scuole di ogni ordine e grado si dovrà orientare verso un’offerta formativa fortemente connessa con le richieste e le aspettative di una società che cambia progressivamente e che chiede risorse sempre più competenti e specializzate nei diversi settori: una preparazione che possa dare ai giovani neolaureati non forse un lavoro ma “il lavoro che serve” e che possa rispondere alle aspettative professionali dei giovani e alla prospettiva di uno sviluppo sostenibile della società in cui vivranno.
    Quindi condurre una buona politica universitaria significa saper programmare ed organizzare il futuro coerentemente con quello che serve alla società.
    La proposta del prof. Mario Panizza, a mio avviso, mira proprio a questo obiettivo. Ideando modelli insediativi con funzionalità dedicate alle nuove esigenze, il management delle Università si troverà quasi costretto ad una programmazione in armonia con le esigenze della società. L’Università può tornare al suo vero ruolo, al ruolo che gli compete ossia a fare didattica, ricerca, cultura e quella attività che oggi viene chiamata terza missione.
    Il progetto del prof. Panizza vuole essere una sfida molto intelligente per uno sviluppo non solo nel mondo della formazione ma anche economico, sociale, lavorativo e finalizzato alla creazione di una società sostenibile di cui il mondo intero oggi ha molto bisogno.
    Un carissimo saluto
    Pasquale De Santis – Consigliere Delegato UNINT

  3. PER UNA VERA PATRIMONIALIZZAZIONE DELL’UNIVERSITA’

    Ho vissuto la prima stagione architettonica seguendo un percorso parallelo a quello di Mario Panizza. Fummo tra i fondatori di Roma Tre (1992), ma ancor prima non ci siamo mai “…persi di vista…”. Si può capire, allora, quanto interesse suscitino in me le sue note che considero puntuali e assolutamente necessarie per riguardare – attraverso il filtro della sua eccezionale esperienza svolta in qualità di Rettore, fino a qualche mese fa – la realtà dell’Università italiana in generale e della nostra Scuola in particolare.

    Dico subito che a me pare che Panizza abbia a cuore il “valore intrinseco” del bene Università, secondo le sue più differenziate declinazioni culturali, strategiche, economiche, civili, ambientali, edilizie, ecc. Insomma, Mario Panizza con il suo contributo ha voluto stilare un bilancio “sulla e per” la crisi dell’Università, tratteggiando alcune possibili soluzioni.
    Compito arduo e meritorio. Perché è sulla “patrimonializzazione” che Panizza vuole intervenire [l’Autore fa riferimento, tra l’altro, a tale connotazione, pur non utilizzando esplicitamente questo termine] in quanto tale manifestazione è espressione d’intervento pubblico ed anche dato oggettivo della collettività sociale. Così deve intendersi – a parere di chi scrive – il suo contributo. Soprattutto in riferimento ai beni di una Università di abbastanza recente impianto come Roma Tre.
    La patrimonializzazione deriva da dispositivi giuridici che intendono “mettere in luce ed esaltare gli spazi culturali e i beni d’interesse educativo, gli spazi naturali, dell’urbanesimo e della conservazione”. La patrimonializzazione va intesa, quindi, come nozione giuridica che nasce dalla volontà collettiva e dalla riflessione sociale, questo l’assunto originale dell’Autore. La patrimonializzazione permette di conoscere gli strumenti normativi per la conservazione del patrimonio e la sua divisione tra il patrimonio culturale e il patrimonio naturale; consente di stabilire la connessione tra gli strumenti urbanistici e la conservazione del patrimonio; ammette di far conoscere alcuni strumenti finanziari applicabili alla conservazione del patrimonio ed alle problematiche di gestione.
    Un “concetto-guida” (che l’Autore mette in campo varie volte e sotto diversi punti di vista) che dovrebbe far riflettere circa gli esiti futuri delle Università, troppo legate a condizionamenti e soggette ad intromissioni indebite circa il loro ruolo futuro. Con improbabili deviazioni verso il “privato tout court”, inaccettabile per una Istituzione veramente indipendente. La cosiddetta privatizzazione (di spazi, di commercializzazioni senza logica, di gestioni di servizi, etc.) in nessuna parte del mondo, nemmeno nei Paesi occidentali più avanzati, ha mai favorito il libero scambio e la completa circolazione culturale. Un tema difficile e di complicatissima risoluzione che merita, davvero, particolare attenzione.

    Ripartendo dalla considerazione strategica fondamentale che il modello organizzativo e spaziale per Roma Tre è stato da subito quello “a rete”, in contrasto con quello “a campus”, nell’evidente difficoltà di reperire un’unica adeguata superficie libera a disposizione, e nell’ambiziosa ipotesi di poter realizzare una stretta integrazione funzionale e formale con i tessuti limitrofi della città, Panizza evidenzia la grande e irripetibile occasione che ebbe e che ha ancora questa Università, nella possibilità di attuare una politica di interventi ispirata a principi virtuosi, per i riverberi sulla qualità urbana, per un corretto uso delle risorse materiali e umane.

    Quanto mai interessante la disamina di Panizza circa il “…recupero della memoria storica… e le sperimentazioni dei nuovi modelli…”. Tali aspetti dirimenti devono essere conosciuti e messi a disposizione nel modo più semplice, attraverso esempi di classificazione chiari e univoci. È a partire da essi che gli obiettivi del sapere (inizialmente riservati solo a chi, di parte, doveva fare uso di quel certo tipo di informazione) che ha incominciato a svilupparsi l’interesse per un livello di diffusione progressivamente più ampio, più coinvolgente, omogeneo e rapido, che integrasse e mettesse a disposizione di tutti i diversi tipi di know-how, di conoscenze e di dati. Questo è il passaggio più importante: da sistemi di patrimonializzazione che raccolgono, gestiscono e trasferiscono informazioni, a sistemi di diffusione, integrazione e crescita delle conoscenze all’interno di opportuni information network.

    Ma è impossibile non dare il giusto rilievo, circolarmente, all’esperienza di Mario in qualità di Rettore. Nella sua (nostra) Università, all’inziale “emergenza” che ha coperto (o “scoperchiato”) una certa debolezza decisionale, riferita ai processi di trasformazione che hanno investito l’intero Progetto d’Area Ostiense-Marconi (e anche le altre sedi esterne dell’Ateneo), seppur in un attivismo realizzativo encomiabile, ma non sempre convincente da un punto di vista qualitativo architettonico, si è sostituita in questi 26 anni una forte consapevolezza della missione di questa straordinaria terza realtà universitaria romana. E di questo merito, una larga parte va a Panizza per la paziente dedizione che ha oggettivamente dimostrato. Insomma, oggi esemplificativamente parlando, a Roma per la contiguità con l’EUR, è stato davvero attuato un vero “saldamento” tra la città storica e la periferia contemporanea, maggiormente studiata e costruita con sapienza e logicità. Così come amava definire l’Ostiense Marcello Piacentini, il quale considerava “…una vera risorsa cittadina l’Ostiense, di importanza strategica straordinaria e di capacità ricettiva di assoluto valore, per merito soprattutto del suo impianto infrastrutturale primario, adeguato a molte trasformazioni possibili ed a imprevedibili innesti di quantità…”.
    Occorre dire che oggi tali eccezionali intenti si sono di fatto e in parte realizzati, sia per l’orizzonte dell’area nella sua diversità e/o integrità, sia per la dialettica imposta con i quartieri, le zone, i distretti contermini.

  4. Caro Mario,
    la lettura del documento richiede tempo e attenzione perché il testo è ricco di interessanti spunti di riflessione. È evidente che si tratta di un contributo che raccoglie il pensiero di chi ha potuto scrutare il panorama italiano universitario da una posizione privilegiata e ha, in parte, anche contribuito a definirlo.
    L’idea di proporre dei “possibili canali innovativi, soprattutto didattici” e di collegarli ai necessari lavori edilizi mi sembra particolarmente azzeccata perché, come tu scrivi, “la qualità architettonica […] genera comportamenti virtuosi”.
    Alcune delle lacune del sistema universitario (lo scollamento tra l’offerta formativa e le nuove professionalità, la carenza dell’offerta abitativa, la carenza delle infrastrutture, etc.) sono messe a nudo con lucida puntualità mentre le diverse proposte di strategia generale (l’equilibrio e l’integrazione dell’università con la città, la diffusione dell’arte contemporanea nelle sedi universitarie, gli spazi collettivi come attrattori urbani, l’impegno verso lo sport, etc.) risultano virtuose e lungimiranti.
    Anche se alcune questioni rimangono, a mio modo di vedere, ancora da chiarire (ad esempio, quando si sostiene che è sbagliato affidare “all’ente beneficiario del cofinanziamento l’onere della costruzione e della gestione” sarebbe interessante capire quali sono le soluzioni alternative), in un Paese che sempre meno investe nell’università e che quando investe spesso lo fa male, il tuo testo costituisce un ottima sintesi e un solido punto di partenza per nuovi e migliori scenari.

  5. Caro Mario,

    ti faccio i complimenti per la capacità di indagare a fondo il mondo universitario, coinvolgendo una quantità di aspetti davvero importante. È una lettura, oltre che piacevole, anche efficace per comprendere le molte sfaccettature – tu ne citi tantissime – che determinano o, per meglio dire, dovrebbero determinare, la qualità complessiva dell’istituzione universitaria.
    Sai che alcune tue posizioni non le condivido appieno, come ad esempio il giudizio, sostanzialmente positivo, che dai del 3+2, la cui efficacia, a mio avviso, dovrebbe essere misurata, non solo in ragione della capacità di incentivare la mobilità studentesca o la competitività tra gli atenei, ma anche sul piano più prettamente didattico e formativo, dove credo mostri i maggiori difetti. Comunque, a parte pochi punti in cui ci troviamo su posizioni diverse, mi sembra un ottimo lavoro di indagine a 360°.
    D’altronde, l’esperienza che hai maturato, ricomprendo, in questi anni, molti ruoli istituzionali di grande rilievo, fino a quello di Rettore, ti ha permesso di costruire un pensiero complesso e articolato sul tema, spaziando dagli aspetti culturali di grande respiro a quelli strutturali e gestionali.
    Mi è piaciuto, in particolare, lo sguardo da architetto e da urbanista che utilizzi, ça va sans dire, con il quale riesci a mettere in risalto, da un lato l’importanza della qualità “ambientale” degli spazi dello studio, dall’altra la necessità di considerare il rapporto che l’università e il popolo di docenti e studenti che la animano dovrebbe avere con la città e la sua vita. Ciò aggiunge alla tua analisi quegli elementi di concretezza che servono per intervenire fattivamente su una eventuale riforma di questo mondo.
    Infine una considerazione, che è anche un suggerimento per possibili sviluppi del tuo lavoro di analisi e ricerca. Di fronte alle piccole e grandi riforme che hanno interessato il mondo universitario, dalla legge Gelmini in poi, e all’incredibile proliferare di regole e procedure che hanno via via ingabbiato in percorsi burocratici la verifica della qualità nei campi della didattica e della ricerca, del reclutamento e della validazione delle offerte formative, mi domando: perché tutti, ormai, sembriamo accettare supinamente che la misura della qualità sia affidata quasi esclusivamente a parametri quantitativi, a numeri o a soglie? E poi, perché le riforme e le regole, che pure devono esistere, sono sempre monolitiche e non contemplano mai un minimo di differenziazione, in ragione delle specificità disciplinari, che a loro volta generano differenze nei metodi, negli obiettivi, negli strumenti? Perché è tutto così piatto, uniforme, indistinto?

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